Intervento del Prof. Mario di Napoli
Il 26 marzo di 40 anni fa, la morte coglieva Ugo La Malfa nel pieno fervore dell’attività politica, quale vicepresidente del Consiglio dei ministri e Ministro del Bilancio del V Governo Andreotti, nel disperato tentativo di salvare la VI legislatura nonostante lo sfaldamento della maggioranza della solidarietà nazionale.
L’insuccesso del precedente tentativo di guidare in prima persona il nuovo governo, grazie alla scelta coraggiosa del neopresidente della Repubblica, Sandro Pertini, di conferire per la prima volta l’incarico ad un politico non appartenente al partito di maggioranza relativa, non aveva minimamente ridotto il suo impegno pubblico.
Così come aveva fatto per tutta la sua vita, si era rialzato dalla sconfitta senza nessuna ombra paralizzante né di rimpianto né di rancore, fedele a quel sentimento della nobiltà e della responsabilità della politica vissuta non come mero servizio, ma come autentico sacrificio, in nome dell’amore secolare che – da repubblicano – portava all’Italia.
Ugo La Malfa traeva l’energia necessaria per restare saldo al suo posto non soltanto dalla sua indomita tempra morale, alimentata dall’origine siciliana e rafforzata dall’esempio del martirio del suo primo maestro, Giovanni Amendola, ma anche e soprattutto dalla profonda consapevolezza di quanto la società italiana fosse “complessa e complicata” – come l’aveva definita Benedetto Croce: a fronte delle debolezze strutturali del Paese, non era infatti consentito, ad un sincero democratico, di abbassare la guardia, neanche per un istante. Ogni piccolo, sofferto risultato conseguito avrebbe sempre costituito per lui un valore inestimabile, da preferirsi comunque alle derive retoriche dell’intransigenza programmaticamente fine a se stessa.
In tale ottica, aveva costruito, nella seconda metà degli anni settanta, mattoncino su mattoncino, le basi per la politica della solidarietà nazionale, così come aveva prima costruito quelle per il centro-sinistra. Egli preferiva tuttavia parlare di politica della solidarietà democratica, con uno scarto lessicale particolarmente pregnante per gli uomini della sua generazione che, avendo visto crollare da giovani lo Stato liberale sotto i colpi del fascismo, ebbero come prioritario e costante obiettivo di impedire che le nuove generazioni dovessero ripetere quella tragica esperienza della perdita della libertà e della dignità nazionale.
All’inizio del 1979, quella fase politica si approssimava al suo esaurimento per il combinato disposto della paura di stare pagando un prezzo troppo alto alla stabilizzazione da parte del PCI berlingueriano, dell’aspirazione a riacquistare la centralità del sistema politico da parte di ampi settori della DC ormai priva di Aldo Moro, nonché dell’ansia di riscatto del PSI craxiano.
Ma una piccola soddisfazione era rimasta all’anziano leader repubblicano. Due settimane prima della sua scomparsa, aveva fatto in tempo ad assistere, il 13 marzo 1979, all’avvio del Sistema monetario europeo, nell’anno in cui per la prima volta era prevista l’elezione diretta del Parlamento europeo, a cui invece il destino l’avrebbe sottratto.
Nell’autunno dell’anno precedente, egli aveva combattuto la sua estrema battaglia politica per l’adesione immediata dell’Italia allo SME mettendo in gioco tutto il suo prestigio politico, con una foga ed una determinazione che corrispondevano alla crucialità della decisione. Le perplessità di un pur vecchio amico come Paolo Baffi, alla guida della Banca d’Italia, i consueti indugi andreottiani che sarebbero volentieri sfociati in una dilazione, le prevedibili resistenze di socialisti e comunisti – che del resto avevano a lungo atteso prima di accettare di far parte della delegazione italiana a Strasburgo – passavano per lui in secondo piano rispetto alla suprema esigenza di garantire l’aggancio dell’Italia alle Alpi.
Nel corso del 1978, i vertici europei che si erano susseguiti per elaborare il progetto e raggiungere l’accordo del nuovo quadro di riferimento destinato a sostituire il Serpente monetario – da Copenhagen (aprile) a Brema (luglio) ed infine a Bruxelles (dicembre) – si erano intrecciati alle drammatiche vicende di quello che era stato l’annus horribilis della storia repubblicana.
Dal 16 marzo al 9 maggio, il rapimento e poi l’assassinio di Aldo Moro avevano segnato in modo inequivocabile il punto più alto dell’attacco delle Brigate Rosse al cuore dello Stato. Ugo La Malfa aveva immediatamente reagito impostando la linea della fermezza cui le istituzioni repubblicane avrebbero dovuto attenersi senza se e senza ma, pienamente consapevole del colpo inferto alla strategia politica dell’apertura al PCI di cui era stato partecipe protagonista con lo statista democristiano, così come del pericolo di cedimento che la democrazia italiana stava correndo. Analoga consapevolezza era allora riscontrabile solo negli editoriali di Leo Valiani sul “Corriere della Sera”, accomunato a La Malfa dalla tradizione azionista su cui pesava il monito di Adolfo Omodeo per cui la libertà che avrebbe dovuto essere “acciaiata”, e cioè pronta a difendersi da ogni tentativo eversivo.
Nei mesi successivi, il sistema politico era stato ulteriormente scosso dal referendum sul finanziamento pubblico ai partiti che aveva mostrato inequivocabilmente la crescente sfiducia dell’opinione pubblica, accentuatasi per le dimissioni del Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, sull’onda dello scandalo della Lockheed e poi solo parzialmente attutita dalla successiva elezione di Sandro Pertini al Quirinale, in virtù della sua cristallina figura di intemerato antifascista e militante della causa dei lavoratori.
La spirale di attentati terroristici e di stampo mafioso appariva inarrestabile e contribuiva ad arroventare il clima politico-sociale su cui continuava a gravare irrisolta l’ipoteca della galoppante inflazione a due cifre che allontanava l’Italia dall’Europa. L’instabilità economica e finanziaria non si limitava a frenare lo sviluppo del Paese, perpetuando il divario Nord-Sud ed allontanando la piena occupazione, ma ne metteva a repentaglio la tenuta democratica, già minata dal terrorismo e dalla criminalità organizzata.
Come ha scritto Michele Salvati, negli anni settanta l’inflazione si delinea come il “problema di politica economica che sovrasta sugli altri e non viene mai efficacemente affrontato, stante “l’incapacità dei governi di costringere le domande sociali all’interno delle risorse disponibili in un contesto monetariamente e fiscalmente controllato”. Ugo La Malfa ne aveva fatto le spese nella breve esperienza ministeriale al Tesoro tra il 1973 e il 1974 nel IV governo Rumor, quando era stato sconfessato nel negoziato con il FMI.
Invano, aveva allora predicato l’austerità come premessa delle riforme che non avrebbero certo potuto essere frutto degli sperperi, auspicando che la comunità nazionale riuscisse a prendere coscienza dei suoi problemi e non si cullasse nell’impressione di sacrificarsi per un periodo transitorio e poi tornare a fare baldoria.
La solidarietà nazionale – alla luce delle nuove potenzialità offerte dall’evoluzione eurocomunista – era parsa ad Ugo La Malfa la sola via per riportare la società italiana sui binari del rigore e dello sviluppo dopo il per lui amarissimo fallimento del centro-sinistra per cui aveva speso gli anni più ruggenti della sua vita politica. E l’aveva intrapresa senza tentennamenti, pur sapendo che avrebbe pagato il salato conto dell’incomprensione da parte di molti vecchi amici, anche d’oltre Atlantico, attestati sulla trincea del tradizionale anticomunismo.
Nella seconda metà dell’anno, passate ma non certo archiviate le pagine drammatiche del caso Moro e dell’elezione presidenziale, le residue speranze di successo di quella politica gli sembrano affidate al Piano triennale di risanamento predisposto dal Ministro del Tesoro, Filippo Maria Pandolfi, che lui stesso era riuscito ad imporre nel governo al posto di Gaetano Stammati, sapendo di poter contare su un interlocutore più adeguato alla prova.
Lo SME sarebbe stato la cornice naturale in cui inserire il contenimento dei conti pubblici e recuperare i margini dello sviluppo, a fronte della stabilizzazione, seppure all’interno della banda di oscillazione, dei tassi di cambio.
Gli interventi pubblici del leader repubblicano, all’approssimarsi del vertice decisivo, assumono la cadenza di un “crescendo” che non risparmia il ricorso a toni apocalittici: l’immediata adesione dell’Italia si configura come una battaglia di vita o di morte. Mettere in sicurezza l’economia, alla luce di un quadro politico sempre più periclitante, diventa la priorità assoluta.
Le sue posizioni sono mirabilmente riassunte nel vibrante discorso che pronunciò alla Camera dei deputati il 13 dicembre 1978. Il fatto che il risultato fosse stato pur rocambolescamente acquisito – grazie all’ennesimo giro di valzer di Giulio Andreotti che aveva in pochi giorni ritrattato le riserve manifestate a Bruxelles – nulla toglie all’intensità ed alla drammaticità delle parole a cui La Malfa ricorre per sottolineare la solennità dell’ora.
La parola-chiave del discorso è “coraggio”, lo stesso che ci volle nel 1951 per la liberalizzazione degli scambi che avrebbe innestato il miracolo economico italiano, quando era stato al fianco di De Gasperi come Ministro per il commercio con l’estero. Fare un passo avanti per non tornare rapidamente indietro è il suo primo monito, nel rivolgersi ai colleghi deputati in modo sferzante: “Preferireste una situazione in cui si possa dire che, nel momento in cui si compie un passo avanti, o si tenta di compierlo, sia mancato l’appoggio dell’Italia?”.
Piena è la solidarietà verso l’iniziativa franco-tedesca, nel riconoscere l’azzardo che a loro volta il presidente Giscard d’Estaing – di cui elogia la sfida al blocco gaullista – e il cancelliere Schmidt stanno compiendo, tanto da fargli giudicare ingiusta ed immorale l’accusa di “germanizzazione” dell’Europa, da riportare integralmente ad un’altra epoca storica!
Sul piano interno, sente da un lato il bisogno di rinnovare l’esame di coscienza di un Paese che ha preferito lo sviluppo verticale del potere di acquisto e di consumo rispetto a quello orizzontale, rinunciando di fatto a risolvere la questione meridionale. Dall’altro rivendica la finalità intrinseca della solidarietà nazionale nella definizione di un programma comune tra le forze politiche per l’uscita dalla crisi, considerando il primo dovere di ogni europeista serio e non parolaio quello di porre il proprio Paese nelle condizioni migliori possibili per perseguire gli obiettivi europei.
Il più lampante riconoscimento di quanto fosse stato decisivo il suo intervento gli venne dal titolo dell’”Economist” del 16 dicembre 1978: How little Ugo delivered giant Italy up to the snake’s jaw. (Davide e Golia).
La storiografia è unanime nel riconoscere il rilievo di questa battaglia lamalfiana e l’ha giudicata come una consapevole anticipazione della ricerca del “vincolo esterno” per ancorare ai parametri europei il risanamento dell’economia italiana. Questa interpretazione, che risente ovviamente degli sviluppi successivi dell’Unione economica e monetaria, spiega però, a mio avviso, solo parzialmente le ragioni di Ugo La Malfa, che non vi possono essere semplicisticamente appiattite.
Per lo statista siciliano, lo SME non importa solo all’Italia, ma all’Europa nel suo complesso, del cui futuro gli italiani dovrebbero imparare a sentirsi maggiormente responsabili. Al vincolo esterno si aggiunge il vincolo della solidarietà: “Se falliamo, falliamo tutti”.
Ecco perché dello SME sottolinea il carattere innovativo di “impegno politico” rispetto alla natura di intesa tra le banche centrali del precedente serpente monetario; ne apprezza la funzione di mezzo di avvicinamento delle politiche economiche e ne valorizza la nuova formula della solidarietà finanziaria.
Un chiaro indice della coscienza della portata globale del progetto europeo è nella chiusa del discorso: “Se questa Europa non riesce a realizzarsi come Unità contro le spinte particolari, viene a mancare un grande momento della storia europea, ma viene a mancare anche un grande momento della storia mondiale”.
La profondità della prospettiva lamalfiana, nell’interrogarsi non solo sul futuro dell’Europa ma di tutto il mondo, almeno di quello occidentale, era stata già chiaramente espressa nell’ultima relazione da segretario nazionale svolta al congresso del PRI nel 1975: “L’Occidente sarà impegnato in un arduo processo di trasformazione che riguarda il tenore di vita di vaste masse già coinvolte e impegnate in un ininterrotto processo di sviluppo economico e sociale. Questa trasformazione richiederà sacrifici, adattamenti, rinunce. E’ sperabile che essa avvenga senza compromettere le basi generali sulle quali si fonda la vita dell’Occidente”.
Ma agli Stati Uniti d’Europa, d’altra parte, Ugo La Malfa aveva cominciato a guardare sin dalla sua prima educazione politica alla scuola amendoliana dell’Unione democratica nazionale. Lo attesta l’articolo del 29 giugno 1926 con cui avviò una breve collaborazione al “Mondo” prima della soppressione della testata: un’organizzazione politica europea gli appariva sin d’allora la sola istituzione in grado di rispondere alle necessità storico-sociali emerse dopo la prima guerra mondiale, preavvertendo il “miserevole fallimento di tutte le ideologie nazionalistiche”
Emblematicamente, da questo testo prende le mosse la raccolta di citazioni europeiste dagli scritti e dai discorsi di Ugo La Malfa che la Fondazione ha promosso in occasione del centenario della nascita, sotto il titolo inequivocabile: “Senza l’Europa avrete il deserto”, che si avvale dell’introduzione di Paolo Savona, il quale osserva come sin dal 1950 egli prospettasse l’unificazione politica come la sola strada maestra per la formazione di un mercato europeo”. Una strada che non fu presa allora e che ancora resta da percorrere.
Tale raccolta documenta la continuità dell’europeismo lamalfiano che viene pertanto da lontano e, nel secondo dopoguerra, ha accompagnato le battaglie federaliste di Altiero Spinelli ma non vi si è pienamente identificato per un duplice ordine di motivazioni: da un lato, una risoluta idiosincrasia verso il radicalismo astratto di alcuni atteggiamenti incapaci di apprezzare “quel poco di buono e di costruttivo che viene fatto”. Dall’altro, l’ascendenza risorgimentale della vocazione politica di Ugo La Malfa: l’amore secolare portato all’Italia.
L’europeismo costituisce forse il tratto più mazziniano della sua personalità politica giunta, come è noto, al PRI da una diversa tradizione rispetto al tronco originario di quello che Togliatti – guardando alle realtà storiche romagnole e toscane che non a caso ancora resistono! – definiva il “piccolo-grande partito di massa”.
Mazzinianamente, in Ugo La Malfa, Italia ed Europa costituiscono un nesso inscindibile perché, come disse nel 1952, “non si può difendere la ragione di vita della nostra Patria se non difendendo le ragioni di vita e di sopravvivenza di una grande civiltà come la civiltà europea”.
“Il nostro più fiero nazionalismo coincide con il nostro più tenace europeismo”.