“Noi credevamo” di Mario Martone è un eccellente film, con validi attori, una bella fotografia, dialoghi di spessore e una scenografia accurata e perfetta nella ricostruzione ambientale. Una colonna sonora raffinata nelle scelte dei brani d’opera del diciannovesimo secolo, la cui esecuzione, affidata all’Orchestra della Rai diretta da Roberto Abbado, riesce a fare emergere il carattere squisitamente ottocentesco delle scene, dandone giustamente un tocco melodrammatico.
Le vicende raccontante nel film ruotano attorno a tre ragazzi del sud (Domenico, Angelo e Salvatore) i quali scelgono di reagire alla dura repressione borbonica dei moti del 1828, che ha coinvolto le loro famiglie, affiliandosi alla Giovane Italia e giurando fedeltà agli ideali repubblicani e democratici di Mazzini. Attraverso quattro episodi, che li vedono a vario titolo coinvolti, vengono ripercorse alcune vicende del processo che ha portato all’Unità d’Italia. Si parte dal circolo dell’affascinante Cristina di Belgioioso a Parigi e dal fallito tentativo di uccidere Carlo Alberto, fino all’insuccesso dei moti savoiardi del 1834. Questi episodi porteranno i tre amici a prendere strade diverse e a creare tra loro una frattura insanabile. Angelo si voterà all’azione violenta ed esemplare, accuserà Salvatore di essere un traditore della causa e parteciperà, in seguito, al tentativo di Felice Orsini di assassinare Napoleone III. Sarà, invece, con lo sguardo onesto e puro di Domenico che noi spettatori avremo l’occasione di conoscere un vero mazziniano, intransigente e coerente, di osservare l’evoluzione e il tradimento della lotta repubblicana e gli esiti di quel processo storico che chiamiamo Risorgimento.
Ma il film è anche un’opera di narrazione storica, un’operazione culturale, che ci offre una interessante rilettura del Risorgimento cercando di mostrare oggi come la mancata riuscita del sogno democratico di una patria repubblicana, quella italiana, sia la causa dei mali che affliggono in buona sostanza il nostro presente. Martone è interessato a rendere cinematografiche le sue tesi sul Risorgimento: il sogno dell’Italia repubblicana, libera e democratica, propugnato da pochi, volenterosi e appassionati giovani si è infranto contro la realtà di una Italia “gretta, superba e assassina”, realizzata per forza di cose da una monarchia che ha semplicemente sostituito un dominio, quello borbonico, con un altro, quello sabaudo. Quindi uno scontro fra repubblicani e democratici, fra un’anima democratica e una autoritaria, una prima “frattura” fra quelle che hanno segnato, e segnano tutt’ora, la storia italiana (Nord contro Sud; Nobili contro il popolo; laici contro clericali, etc.).
Il regista mostra, attraverso la figura di Domenico, come la vera azione mazziniana, abbia preparato il terreno meridionale e lo spirito delle popolazioni all’impresa dei Mille. Questa azione, portata avanti da dei veri apostoli del sacrificio, noncuranti delle privazioni e delle torture, ha prodotto la Nazione Armata, il popolo in armi che, quando non imbrigliato dalle macchinazioni monarchiche, ha saputo produrre gli esempi più alti del nostro Risorgimento. In effetti la critica del regista è rivolta essenzialmente agli intellettuali che non hanno saputo condurre il popolo, dal momento che non erano capaci di comprenderlo e nemmeno avevano la volontà di farne parte. Ragionare oggi del Risorgimento è un’occasione per interrogarci sull’Italia e il disincanto degli italiani e la cinematografia diventa uno strumento prezioso anche per lo studio del nostro passato. Certo il Mazzini interpretato da Servillo, un uomo misterioso, visto nella sua presunta umanità e con toni volutamente antiretorici, resta sullo sfondo molto defilato e distante, e la scelta del regista degli aneddoti da raccontare e delle incongruenze (un Mazzini che sembra già vecchio durante i moti del 1834 quando era appena venticinquenne) ne fanno forse uno dei tratti meno riusciti del film.
Raccontare il Risorgimento, tuttavia, attraverso i mezzi proposti dal cinema e dalla arti visive in genere comporta una riflessione sul presente, sulla società odierna. In effetti, l’opera cinematografica è sempre figlia della società che lo ha prodotto e porta con sé tutto il carico dei suoi valori. L’opera cinematografica è nondimeno anche figlia dello sguardo del regista, poiché le immagini con cui gioca non sono mai neutrali, ma sono sempre una visione di parte, una realtà filtrata e manipolata in funzione del messaggio che vuole lanciare agli spettatori.
Il richiamo allegorico all’Italia di oggi avviene, infatti, attraverso alcune immagini, apparentemente fuori tempo, come ad esempio l’inquadratura dei piloni di cemento armato di una casa iniziata e mai finita sulla costa del sud, che richiama un’altra casa ancora da completare, “quella italiana”, contemporanea, mai così necessaria come adesso. È proprio questo il motivo principale che rende questo film un documento storico assolutamente necessario oggi per la comprensione del nostro passato.
tratto da “Il Senso della Repubblica”, Anno IV n. 12 dicembre 2010