(Sergio Luzzato, Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2015)
Di fotoreporter ce n’erano parecchi, quel giorno in Campo dei Fiori, anche se i loro nomi hanno poi faticato a entrare negli annali della grande fotografia: Carlo Rocchi, M.C. Sirani, T. Fabbri… La manifestazione popolare per l’inaugurazione della statua di Giordano Bruno – Roma, 9 giugno 1889 – è una delle primissime nella storia d’Italia che sia fotograficamente documentata, come nell’«istantanea» del «corteggio in via Nazionale» pubblicata di lì a poco dall’«Illustrazione italiana». In quel giorno di Pentecoste, l’Italia nuova si dà appuntamento in Campo dei Fiori, a un tiro di schioppo dal Vaticano, per celebrarsi come Italia laica. Per contestare al Sommo Pontefice di Santa Romana Chiesa non più soltanto il potere temporale, ormai cancellato da Porta Pia, ma anche il potere spirituale.
Treni speciali trasportano a Roma pellegrini laici a migliaia, da Pisa, da Napoli, dai quattro angoli di un Paese che è andato scoprendo negli anni precedenti – per effetto di un’insistita campagna d’opinione – la figura stessa di Giordano Bruno: il frate domenicano che la Chiesa della Controriforma aveva perseguitato come apostata, condannato come eretico e infine, il 17 febbraio 1600, bruciato vivo in Campo dei Fiori. Ventimila, nei calcoli della Questura, i manifestanti raccolti alla base dell’imponente statua di bronzo disegnata da Ettore Ferrari (ma sembrano di meno, a dire il vero, nel colpo d’occhio delle fotografie). Cui va aggiunta la gente affacciata alle finestre e ai balconi delle case prospicienti la piazza, romani benestanti che hanno pagato una specie di affitto giornaliero ai popolani residenti nel Campo.
Invano il cardinale Rampolla, segretario di Stato di papa Leone XIII, ha cercato di spaventare la cittadinanza prevedendo disordini di piazza, e arrivando a offrire biglietti ferroviari gratuiti a quanti volessero allontanarsi dalla capitale. La manifestazione del 9 giugno è un successo anche per l’ordine perfetto con cui le più varie delegazioni e associazioni d’Italia – consiglieri comunali, notabili provinciali, reduci garibaldini, operai mazziniani, studenti universitari – sfilano in corteo dalla stazione Termini a Campo dei Fiori. Il tutto in un clima di festosa animazione descritto l’indomani dal cronista del «Messaggero»: «Si vendono banderuole di carta, fazzoletti con il ritratto di Giordano Bruno, busti e statuette di gesso, opuscoli d’ogni specie». «La folla sparpagliata dovunque si fa sempre piu fitta», e «tutte le classi sociali vi sono rappresentate». «Moltissime le donne» (ma anche di queste, nelle fotografie scattate quel giorno, non se ne riconoscono poi tante).
Era un sospirato punto d’arrivo, l’apoteosi d’oltretomba di Giordano Bruno. Coronava un progetto – vendicare il rogo inquisitoriale del 1600 con il più parlante dei simboli, la statua della vittima eretta nel luogo stesso del martirio – che risaliva a una dozzina d’anni prima. Nel 1876 una manciata di studenti dell’università di Roma, intraprendenti giovanotti originari delle province dell’ex Stato pontificio, si erano visti regalare l’idea da un loro amico straniero: un rivoluzionario francese per nascita e cosmopolita per vocazione, un esule della Comune di Parigi che di nome faceva Armand Lévy. Progetto abbracciato con entusiasmo da Giuseppe Garibaldi («possa il monumento da voi eretto al gran pensatore e martire essere il colpo di grazia alla baracca di cotesti pagliacci che villeggiano sulla sponda destra del Tevere»), ma poi arenatosi fra le secche della politica politicante, quali davvero non mancavano lungo entrambi i versanti dell’Isola Tiberina.
Secondo Massimo Bucciantini, che della statua di Campo dei Fiori ha scritto adesso la fascinosa storia, il progetto sarebbe definitivamente fallito senza l’intervento di un professore universitario di filosofia destinato a contare nella vicenda del socialismo italiano: Antonio Labriola. Nel 1885, fu grazie al prestigio di Labriola che una rinnovata conventicola di studenti romani poté rilanciare l’idea della statua raccogliendo adesioni – e sottoscrizioni, cioè soldi – da tutta Europa e perfino dalle Americhe. Allora il progetto perse il suo carattere più provinciale e striminzito, di goliardata anticlericale, e assunse la cifra di un omaggio internazionale alla libertà di pensiero. Quelli di Victor Hugo, Ernest Renan, Henrik Ibsen, Walt Whitman, furono soltanto alcuni tra i bei nomi che accettarono di figurare nel Comitato d’onore dell’erigendo monumento a Giordano Bruno.
Una «brunomania» – come fu sdegnosamente qualificata dai gesuiti della «Civiltà cattolica» – percorse la cultura democratica italiana negli anni a ridosso dell’inaugurazione della statua. Libri, libelli, opuscoli, saggi, biografie romanzate, commedie teatrali, opuscoli commemorativi: oltre duecento titoli nel solo biennio 1888-89. A Roma, un Consiglio comunale politicamente moderato mantenne a lungo un atteggiamento ostruzionistico. Ma a partire dal 1887, quando alla presidenza del Consiglio dei ministri assurse un ex garibaldino del peso politico di Francesco Crispi, la bilancia prese a pendere in favore degli ammiratori di Bruno. E nell’autunno del 1888, quando gli elettori della capitale elessero al Campidoglio una maggioranza liberale, le condizioni furono riunite perché il bronzo della statua potesse finalmente essere fuso.
Cammin facendo, i promotori del monumento avevano dovuto rinunciare a raffigurare Bruno – come in un primo bozzetto di Ferrari – alla stregua di un profeta trascinante, o addirittura di un avatar capitolino della Statua della Libertà montata in quegli anni tra Parigi e New York. Pur di realizzare il progetto, avevano dovuto contentarsi di un Bruno statico e riflessivo, meno apostolo che filosofo. Ma che la statua inaugurata il 9 giugno 1889 in Campo dei Fiori rappresentasse comunque una dichiarazione di guerra contro ogni verità rivelata, è quanto riusciva chiaro a tutti i cattolici d’Italia, Sommo Pontefice in testa. Il 30 giugno, in un’allocuzione davanti al Concistoro, Leone XIII tenne a ribadire come Giordano Bruno fosse stato «doppiamente apostata, convinto eretico, ribelle fino alla morte all’autorità della Chiesa». «Così dunque le straordinarie onoranze tributate a tal uomo, dicono alto e chiaro, essere ormai tempo di romperla colla rivelazione e la fede: l’umana ragione volersi emancipare affatto dall’autorità di Gesù Cristo».