(Il Gazzettino, 25 settembre 2017 – di Alberto Toso Fei)
Il loro destino sembrava segnato: figli dell’ammiraglio Francesco Giulio Bandiera (e di Anna Marsich) erano diventati a loro volta ufficiali della Marina austriaca. Nobili, abitavano a palazzo Soderini, che si affaccia su campo della Bragora, e tutto nella loro vita sembrava dover procedere verso l’affermazione sociale, la sicurezza del censo e di una famiglia agiata alle spalle, il successo pronto ad arridere a due giovani colti e molto uniti tra loro. Ma nella vita capita di fare scelte diverse e drastiche, oppure è la vita stessa che ti chiede di farlo, se ciò che fai e ancora di più ciò che sei non è quello che vorresti essere. Attilio ed Emilio Bandiera non volevano essere austriaci. Volevano essere italiani .Fu così che nel 1841 fondarono una società segreta, l’Esperia (Non è vero che l’Italia sia immatura pella libertà vi si legge dallo statuto ; dalla Trinacria alle Alpi serve dovunque un cupo mormorio che invano i tiranni si studiano di soffocare) aderendo successivamente alle idee mazziniane; denunciati da un delatore, Tito Vespasiano Micciarelli, si rifugiarono a Corfù dove viveva un piccolo gruppo di esuli. Per evitare lo scandalo le autorità austriache inviarono sull’isola la madre, per convincerli a tornare.
Invece, furono raggiunti dalla notizia di una ribellione avvenuta a Cosenza, allora parte del regno delle Due Sicilie, contro Ferdinando II. Così, la notte del 12 giugno 1844 salparono con altri diciassette compagni (fra cui i veneziani Domenico Moro, di Castello come loro, e Giovanni Vanessi) diretti in Calabria, incuranti del divieto posto loro da Giuseppe Mazzini in persona.
Se soccombiamo scrisse in una lettera Emilio Bandiera a Mazzini poche ore prima di imbarcarsi dite ai nostri concittadini che imitino l’esempio, poiché la vita ci fu data per utilmente e nobilmente impiegarla, e la causa per la quale avremo combattuto e saremo morti è la più pura e la più santa che mai abbia scaldato i petti degli uomini: essa è quella della Libertà , dell’Eguaglianza, dell’Umanità , della Indipendenza e dell’Unità d’Italia.
Sbarcarono quattro giorni più tardi alla foce del fiume Neto, e subito appresero che la rivolta era stata già repressa nel sangue. Nondimeno decisero di proseguire verso la Sila, ma furono traditi ancora. Le guardie borboniche li intercettarono alle porte di San Giovanni in Fiore: ne nacque uno scontro a fuoco, che uccise due patrioti e ne ferì altri, portando alla cattura del gruppetto. Era il secondo moto in pochi giorni, l’autorità borbonica non poteva permetterlo e Ferdinando II ci andò giù duro, condannandoli a morte quasi tutti.
La mattina del 25 luglio 1844 i condannati furono portati nel Vallone di Rovito, nei pressi di Cosenza, e furono fucilati. La sera prima un loro compagno di cella e di ribellione, l’incisore bolognese Giuseppe Pacchioni condannato all’ergastolo, così come il veneziano Vanessi aveva disegnato i loro ritratti. Attilio aveva 34 anni, Emilio 25.
Dopo la fucilazione i corpi dei veneziani furono sepolti con quelli degli altri compagni nel duomo di Cosenza. I fratelli Bandiera e Domenico Moro tornarono nella loro città meno di un anno dopo la sua annessione al neonato stato italiano dopo la terza guerra di indipendenza il 18 giugno 1867. Furono inumati sotto il pavimento della navata sinistra appena varcato l’ingresso della chiesa di San Zanipolo, il Pantheon dei dogi, che conserva le spoglie di altri eroi veneziani come Marcantonio Bragadin e Vettor Pisani. Nel frattempo c’erano stati il Quarantotto, Manin e Tommaseo. E Venezia non aveva dimenticato nessuno.