2024. La fine della democrazia?
Sono tempi distopici. Mentre il paese disquisisce di pandori e i social blaterano di carne sintetica, il mondo brucia. Il buio è sceso con lo scoppio della pandemia, le cui cicatrici resteranno indelebili. Il tormentato avvio del processo di pacificazione in Spagna, o la vittoria della coalizione guidata da Donald Tusk in Polonia, sono gioie effimere come la luce di un cerino. Dalla vile invasione dell’Ucraina del febbraio 2022, alla barbarie di Hamas dello scorso 7 ottobre siamo sottoposti a uno stillicidio di dolore e pervasi da un grande senso di impotenza. Acuito sicuramente da quanto accaduto in Senato il 23 gennaio 2024 dove, al momento dell’approvazione della legge sull’autonomia differenziata, è stata sventolata quella bandiera con il leone di San Marco, per cui il napoletano Alessandro Poerio diede la vita nel 1848, come tanti italiani e italiane radunati a difesa dell’ultimo stendardo di italianità.
Dato per scontato l’esito del voto alla Camera, sono due gli elementi su cui riflettere. Il primo è l’annullamento della discussione parlamentare, che ha impedito un confronto pubblico su un provvedimento che sancirà la fine dell’unità e della solidarietà nazionali. L’azione legislativa dell’esecutivo in carica, che gode di una maggioranza schiacciante, è fatta al 55% per cento di conversione di decreti legge, contro il 33% del Conte bis e del governo Draghi, che pure hanno gestito la complessa fase pandemica. Il secondo è che, di fronte ad una crisi globale senza precedenti, l’Italia ha scelto di tornare al sistema degli “staterelli” preunitari, indebolendo ulteriormente il Meridione, la cui unica “salvezza” pare affidata al Ponte sullo Stretto. Se “incrociamo” l’autonomia differenziata con il premierato, il quadro assume contorni ancora più preoccupanti. Ci troveremmo in presenza di un ibrido tra sistema parlamentare e sistema presidenziale, che diminuirebbe i poteri del Presidente della Repubblica riducendo il Parlamento, più di quanto non lo sia già, a mere funzioni notarili.
La personalizzazione della politica e la scomparsa della partecipazione – reale, di quella virtuale ne abbiamo in abbondanza – conducono inevitabilmente al “sonno” della democrazia, anche in Italia. Il Presidente Mattarella lo ha ricordato nel discorso di fine anno. Basta consultare le previsioni sull’astensionismo alle prossime elezioni per mettersi le mani nei capelli: si viaggia ormai oltre il 50% di astenuti. Del resto i partiti, al di là di qualche frase di circostanza, non fanno alcunché per stimolare la partecipazione al voto né per rinnovare le loro classi dirigenti, come dimostrato dallo stucchevole dibattito sulle candidature dei leader come capolista alle elezioni europee, le più importanti e cruciali dal 1979.
Una chiusura tanto più inaccettabile di fronte a un paese sempre più povero e sfiduciato, come l’Italia fotografata dall’impietoso, ma lucido, rapporto del Censis. Gli italiani “non vedono, non costruiscono il futuro, sono ripiegati su sé stessi e hanno paura”: nel 2040, secondo le
previsioni, un terzo della popolazione italiana sarà composta “da famiglie formate da anziani soli”. Il 76,1% pensa che il lavoro “disponibile sia poco qualificato e sottopagato”: forse è anche per questo se “il peso dei laureati sugli espatriati è passato dal 33,3% del 2018 al 45,7% del 2021”, mentre degli 82.014 connazionali che nel 2022 hanno lasciato l’Italia “il 44% ha tra i 18 e i 34 anni”. A cosa serve la retorica nazionalista sui confini, quando così tanti giovani lasciano il paese? Come si può lamentare la carenza di nascite – mettendo alla gogna mediatica, senza conoscerne i motivi, una madre che abbandona la figlia in ospedale – quando sono le diseguaglianze a far sprofondare la democrazia? Secondo un rapporto del Centro Studi di Unimpresa tra il 2022 ed il 2023 l’inflazione si è mangiata 152 miliardi di euro dei risparmi degli italiani che, mentre sembrano accettare senza scomporsi lo smantellamento di scuola e sistema sanitario nazionale, solidarizzano con la protesta degli agricoltori tedeschi di cui contribuiscono a pagare lauti sussidi sul gasolio. Piuttosto che cavalcare le paure, la politica dovrebbe riflettere su questi dati.
È così difficile cogliere la drammaticità del momento storico che stiamo attraversando? In Ucraina si combatte a soli 600 km dal confine italiano, mentre il conflitto in Medio Oriente ha innescato una reazione a catena di cui già si colgono gli esiti funesti nelle schermaglie tra Iran e Pakistan e negli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso. Ciò a cui abbiamo assistito lo scorso 7 ottobre è una delle pagine più obbrobriose scritte dopo la Shoah e, come ha ricordato Liliana Segre, è terribile vedere «ancora ebrei braccati e uccisi perché ebrei». Stavolta, però, non sono state sventolate bandiere della pace contro Hamas, e alle donne israeliane colpite da stupri e violenze inaudite non è arrivata nessuna solidarietà. Anzi, in occasione del Giorno della Memoria abbiamo assistito a inaccettabili rigurgiti antisemiti. Questi cortocircuiti denotano la fragilità della cultura democratica, di cui bisogna prendere atto. Non si possono sovrapporre le legittime critiche al governo Netanyahu e all’ultra destra israeliana, impegnati in un’operazione militare prolungata e senza sbocchi diplomatici, alla negazione del diritto all’esistenza di Israele, posizione espressa da Hamas e dal sanguinario regime iraniano. Sono migliaia i cittadini israeliani, guidati dal dignitoso dolore dei parenti degli ostaggi, che in questi giorni stanno protestando contro il governo israeliano ed è nella loro azione che noi riconosciamo la forza della democrazia liberale.
In questo complicato quadro, e non è da oggi, si registrano l’assenza dell’Onu, incapace di adattarsi alle sfide poste da un mondo multipolare, e dell’Unione Europea, ostaggio di Orban e di processi decisionali antiquati, che è ormai imprescindibile riformare radicalmente. Resiste, non senza contraddizioni – pensiamo al ruolo di Erdogan – la Nato, rianimata da Joe Biden dopo il disastroso passaggio sull’Afghanistan. Ma in caso di vittoria di Trump, cosa farà un’Europa così debole e disunita, sulla quale incombe il voto del 9 giugno? È condannata alla marginalità ed alla regressione e non sarà il solo Mario Draghi a poterla salvare. Del resto come si possono arginare bufale come quelle secondo cui l’Unione Europea ci obbligherebbe a comprare due pigiami l’anno –
numero peraltro ragionevole – attraverso un fantomatico “sistema di controllo dell’euro digitale”? Ha ragione Edgar Morin quando sostiene che la crisi “non è solo economica, non è solo di civiltà, ma anche di pensiero”. La debolezza della democrazia risiede nella sua impossibilità di rispondere alle sfide globali senza ricorrere all’illusione dell’autoritarismo. Sembra un paradosso, ma è proprio così. Mazzini, che la democrazia repubblicana se l’è inventata in tempi di assolutismo ed ha pure contribuito a incorniciarla nella Costituzione della Repubblica Romana, era consapevole del fatto che se non fossero stati i cittadini a tenerla viva, si sarebbe spenta. Ed è quello che sta accadendo. La democrazia liberale – che peraltro è forma di governo minoritaria nel globo – sembra essere giunta al capolinea. Saranno il voto europeo e americano a chiarirci se il suo declino è inarrestabile.
Come mazziniani dobbiamo prenderne atto e prepararci ad anni ancor più difficili degli ultimi, in difesa e a sostegno dell’unico strumento che garantisce il reale funzionamento della democrazia: la partecipazione.